27 gennaio 1945 – 27 gennaio 2023

Quasi ottant’anni fa, le truppe sovietiche dell’Armata Rossa varcavano le porte della città polacca di Oswiecim e rivelavano l’orrore del genocidio nazi-fascista compiuto ad Aushwitz, dove non rimanevano altro che cataste di ossa, mucchi di scarpe e pochissimi sopravvissuti. Molti tra questi avevano incominciato il loro calvario ben prima della prigionia nel campo di sterminio, in altri luoghi in cui la crudeltà nazista non aveva mancato di mietere vittime. Un esempio è quello del campo di detenzione di Theresienstadt, o Terezin, da dove ha inizio la storia raccontata dall’omonimo film di Gabriele Guidi.Il regista segue il periodo di prigionia del giovane Antonio, un clarinettista italiano per metà ebreo che si trova a Praga per studiare musica e che viene internato proprio a Terezin. Il campo conquisterà ben presto il titolo di “ghetto degli artisti” e susciterà l’indignazione degli ufficiali tedeschi, che in visita al campo non potevano fare a meno di notare come in ogni suo angolo sembrasse essere in corso un concerto. Qui, ne “il ghetto modello che voleva Berlino”, trovarono modo di esprimersi pittori, scrittori e intellettuali, ma soprattutto musicisti e compositori che utilizzavano la musica per cantare e suonare ciò che non avevano modo di dire ai loro aguzzini.

La decisione di girare il film proprio nel campo di Terezin, a sessanta chilometri da Praga, contribuisce a rendere la storia realistica e suggestiva, anche se i dialoghi a tratti eccessivamente esplicativi e la fotografia semplice, molto vicina a quella tipica delle fiction, stridono con la narrazione.

Vincente è l’alternarsi di scene drammatiche, come quelle in cui sono rappresentate le deportazioni, e scene invece più liete, ad esempio quelle delle prove d’orchestra, in cui comunque aleggia il sentimento di angoscia e il presentimento di morte che gravava sugli internati. È proprio in questo intervallarsi così drastico che si coglie l’assurdità di questi luoghi, prigioni a cielo aperto.

Alla messa in scena di alcuni degli aspetti più feroci della crudeltà nazi-fascista subentra la rappresentazione dei rapporti umani tra i prigionieri e lo struggimento di questi, spesso ignari della condizione dei loro cari. Ciò concorre ad umanizzare i personaggi e avvicinarli allo spettatore, che si immedesima fino in fondo nel loro dolore e ne percepisce l’impotenza.

La centralità dell’arte è però l’aspetto che davvero conquista il pubblico. La cultura è l’ultimo baluardo contro odio, violenza e atrocità di ogni tipo: è presentato come il bene più prezioso di cui disponiamo, un bene di cui non possiamo mai davvero essere derubati, anche quando spogliati di ogni cosa.

Il film “Terezin”, nonostante tratti un tema molto delicato e spesso abusato, riesce in modo semplice e diretto a mettere in luce la potenza dell’arte, in particolar modo della musica, intesa come strumento capace di tramutarsi in messaggio universale, al fine di diffondere la forza per continuare a sopravvivere di fronte alla brutalità dell’uomo.

“Terezin” è un importante contributo alla memoria storica di ciò che è accaduto e una testimonianza potente della lotta per la libertà e la dignità umana.

Recensione by VA

Liceo N. Spedalieri, Catania